Ogni riflessione sulle regole per il patrimonio culturale in Italia ha un punto di partenza obbligato, l’art. 9 della Costituzione: esso – secondo l’efficace definizione di Salvatore Settis – “è il punto di arrivo, anzi di snodo, di una lunga storia che forma un filo rosso nella storia d’Italia e che ha influenzato profondamente la storia d’Europa”.
Per l’art. 9, “la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Nell’analizzare la norma, Roberto Benigni si è chiesto:
Cosa hanno voluto dire i Padri e le Madri costituenti con quelle brevi parole … tutelate il paesaggio?
Che ci volevano dire?
Ci hanno detto … vogliate bene alla vostra mamma.
Il paesaggio l’ambiente, la nostra memoria storica è nostra madre. Ci ha fatti lei. Questa nazione, questa terra è la nostra memoria storica. Le opere d’arte che abbiamo fatto siamo noi, sono la nostra immagine.
Quindi, l’articolo 9 ci dice: dovete voler bene alla vostra mamma.
Tutela, gestione e valorizzazione del patrimonio culturale sono, comunque, aspetti di un processo unico.
Il codice dei beni culturali e del paesaggio del 2004 rappresenta, appunto, l’approfondimento di un percorso unitario preordinato alla tutela e alla valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici durato circa settant’anni.
L’avvocato Molinaro, relatore ad un convegno sulla “legge Falanga tra abusi speculativi ed abusi di necessità” tenutosi il 10 giugno 2017 presso l’albergo Regina Isabella di Lacco Ameno, ha affermato che:
La “legge Falanga”, oltre a proteggere le case abitate, fa sì che le risorse disponibili vengano utilizzate per abbattere gli immobili della speculazione, gli ecomostri e gli scheletri edilizi che deturpano il paesaggio.
Non è, pertanto, sbagliato sostenere che tale legge migliora addirittura l’ambiente.
È innegabile che le sentenze debbano essere eseguite e che non possa esserci scappatoia che tenga.
Il problema, tuttavia, diventa grave quando le demolizioni avvengono con il contagocce, come, appunto, verificatosi nella nostra regione, vuoi per difficoltà di ordine organizzativo, vuoi per mancanza di risorse finanziarie.
Non va dimenticato, peraltro, che l’ordine di demolizione collegato alla sentenza di condanna è stato introdotto per la prima volta nel nostro ordinamento dalla legge n. 47/85.
L’istituto, dunque, è vecchio di oltre trent’anni.
Se le demolizioni si contano sulle dita di una mano e avvengono a macchia di leopardo, è evidente che qualcosa non funziona.
Lo scopo della legge è proprio quello di mettere ordine nella esecuzione dei provvedimenti di demolizione che, secondo i dati di Legambiente, sono migliaia nella sola regione Campania e riguardano ecomostri, fabbricati pericolanti, scheletri di cemento armato, immobili della criminalità organizzata, costruzioni realizzate sulle spiagge o in violazione del limite di distanza dalla costa e finanche case di necessità abitate da persone prive di ogni altra possibilità di alloggio.
Va, inoltre, ricordato che il quotidiano Il Mattino ha segnalato qualche tempo fa che la demolizione di tutte le costruzioni abusive realizzate a Napoli e Provincia equivale alla demolizione di un numero di case pari a quello di una città grande come Padova, aggiungendo che, per radere al suolo questo immenso patrimonio edilizio, occorrono almeno due secoli ed un enorme fiume di denaro, senza considerare i problemi, sui quali si è soffermato anche il Governatore della Campania Vincenzo De Luca, legati alla carenza, nella intera regione, di un numero sufficiente di discariche dove poter smaltire i residui della attività demolitoria che, come è noto, costituiscono rifiuti speciali.
Compito dell’avvocato, in definitiva, è anche quello di battersi perché la pubblica amministrazione possa coniugare la tutela sanzionatoria con quella degli abusi di necessità a discapito delle brutture che offendono il paesaggio, per le quali la stessa difesa tecnica deve fare i conti con il principio della libertà di coscienza.