30.05.2007 - Nuovo alt della cassasione al condono edilizio nelle zone vincolate… ma restano i dubbi sulla ermeneusi restrittiva della norma

30.05.2007 – Nuovo alt della Cassazione al condono edilizio nelle zone vincolate … ma restano i dubbi sulla ermeneusi restrittiva della norma

Di Bruno Molinaro

SOMMARIO: 1. L’orientamento consolidato della Corte: il vincolo esclude la sanatoria per le nuove costruzioni, ammettendola solo per gli interventi edilizi minori (art. 32, comma 26, lett. a), d.l. n. 269/2003 ). 2. Le obiezioni alla interpretazione restrittiva della norma. 3. La “non rilevanza” – per i giudici di legittimità – delle argomentazioni addotte dai sostenitori della tesi “estensiva” dei limiti di applicabilità del terzo condono edilizio. 4. Le ragioni per le quali l’ermeneusi riduttiva della norma non convince appieno. 5. La difficoltà di operare correlazioni fra una normativa condonistica, eccezionale e di stretta interpretazione ( art. 32 d.l. n. 269/2003 ), ed altra generale, come quella introdotta dal Codice Urbani ( d.lgs. n. 42/2004 ) in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio. 6. La conferenza dei servizi e la inammissibilità di un’interpretazione coordinata degli artt. 20, comma 6, e 5, comma 4, del d.P.R. n. 380/2001. 7. La circolare esplicativa del Ministero delle Infrastrutture n. 52/2006 e la sentenza della Corte Costituzionale n. 49/2006, secondo cui la sanabilità delle opere realizzate in zona vincolata è da escludere solo si tratti di vincolo di inedificabilità assoluta. 8. Conclusioni.

1. L’orientamento consolidato della Corte: il vincolo esclude la sanatoria per le nuove costruzioni, ammettendola solo per gli interventi edilizi minori (art. 32, comma 26, lett. a), d.l. n. 269/2003 ).
1.1. Con la sentenza che si annota, la Corte di Cassazione, terza sezione penale, ribadisce il suo consolidato orientamento in materia di sanatoria straordinaria introdotta con il d.l. n. 269 del 2003, convertito nella l. n. 326 del 2003, secondo il quale le nuove costruzioni realizzate in assenza del titolo abilitativo edilizio e in area assoggettata a vincolo non sono suscettibili di sanatoria, ostandovi il disposto dell’art. 32, comma 26, lett. a), dello stesso d.l. n.269. In particolare, ritiene la Corte che, nelle aree sottoposte a vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici, ambientali e paesistici, la norma anzidetta ammetta la possibilità di ottenere la sanatoria per i soli interventi edilizi di restauro, risanamento conservativo e manutenzione straordinaria e non anche per gli interventi innovativi, comportanti incremento di superficie e di volume. I punti fermi di tale restrittivo orientamento, sottolineati anche dalla decisione in commento, sono i seguenti: I. <>. II. <>.
2. Le obiezioni alla interpretazione restrittiva della norma.
2.1. A tale indirizzo sono state mosse varie obiezioni, talune – nel giudizio che ne occupa – ad opera dello stesso ricorrente, sulla base di diffuse argomentazioni, sulle quali i giudici della nomofilachia hanno preso posizione nel tentativo, non troppo riuscito, come meglio si vedrà in seguito, di scardinarne la fondatezza sia sul piano logico che su quello più propriamente giuridico. Quelle del ricorrente, cui la Corte ha fornito risposta ( rigettandole ), possono così riassumersi:
2.2. L’art. 43 del d.l. n. 269 del 2003, che ha integralmente sostituito l’art. 32 della legge n. 47 del 1985, ha ripudiato l’istituto del silenzio – assenso , attribuendo al comportamento omissivo, protrattosi oltre 180 giorni dalla richiesta di parere, valenza di silenzio – rifiuto per tutti i tipi di vincoli. Ai fini dell’acquisizione dei pareri “si applica quanto previsto dall’art. 20, comma 6, del D.P.R. n. 380/01” ed “il motivato dissenso espresso da una amministrazione preposta alla tutela della salute preclude il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria” ( comma 4 ). “Il parere non è richiesto quando si tratti di violazioni riguardanti l’altezza, i distacchi, la cubatura o la superficie coperta che non eccedano il 2 per cento delle misure prescritte” ( previsione, quest’ultima, contenuta anche nella precedente formulazione ).
2.3. In relazione alla intervenuta sostituzione dell’art. 32 della legge n. 47 del 1985, le tipologie d’intervento ammesse a condono non potrebbero di certo essere circoscritte a quelle elencate nei nn. 4, 5 e 6 dell’allegato 1. Non avrebbe senso, infatti, la obbligatoria convocazione di una “dispendiosa” conferenza di servizi per opere di minima importanza ( quali la manutenzione straordinaria, il restauro ed il risanamento conservativo ), né avrebbe senso richiedere per le medesime opere la acquisizione del parere paesaggistico, stante la disposizione che tale parere invece esclude “quando si tratti di violazioni riguardanti l’altezza, i distacchi, la cubatura o la superficie coperta che non eccedano il 2 per cento delle misure prescritte ( violazioni queste ultime considerate più gravi di quelle che possono commettersi in occasione dell’esecuzione degli interventi di manutenzione e restauro).
3. La “non rilevanza” – per i giudici di legittimità – delle argomentazioni addotte dai sostenitori della tesi “estensiva” dei limiti di applicabilità del terzo condono edilizio.
3.1. Tali argomentazioni non appaiono “conducenti”, secondo i giudici di legittimità, in quanto esse non tengono in conto che: A) Nelle zone paesaggisticamente vincolate è inibita – in assenza dell’autorizzazione già prevista dall’art. 7 della legge n. 1497 del 1939, le cui procedure di rilascio sono state innovate dalla legge n. 431/1985 e sono attualmente disciplinate dall’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004 – ogni modificazione dell’assetto del territorio, attuata attraverso lavori di qualsiasi genere, non soltanto edilizi, con le deroghe eventualmente individuate dal piano paesaggistico, ex art. 143, 5° comma – lett. b, del d.lgs. n. 42/2004, nonché ad eccezione degli interventi previsti dal successivo art. 149 e consistenti (tra l’altro) nella manutenzione, ordinaria e straordinaria, e nel consolidamento statico o restauro conservativo, purché non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici. B) Qualora un qualsiasi intervento edilizio da realizzarsi mediante d.i.a. (quali la manutenzione straordinaria, il restauro ed il risanamento conservativo) riguardi immobili sottoposti a tutela storico-artistica o paesaggistico-ambientale ai sensi del d.lgs. n. 42/2004 (codice dei beni culturali e del paesaggio), della legge n. 394/1991 (legge-quadro sulle aree protette), della legge n. 183/1989 (norme per il riassetto organizzativo e funzionale della difesa del suolo) e del d.lgs. n 152/2006 (norme in materia ambientale), l’effettuazione dello stesso è subordinata al preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative (art. 22, 6° comma, del d.P.R. n. 380/2001). Nell’ambito delle norme di tutela rientrano, altresì, le previsioni: – dei piani territoriali paesistici o dei piani urbanistico – territoriali aventi le medesime finalità di salvaguardia dei valori paesistici e ambientali; – degli strumenti urbanistici, qualora siano espressamente rivolte alla tutela delle caratteristiche paesaggistiche, ambientali, storico -archeologiche, storico – artistiche, storico – architettoniche e storico – testimoniali. C ) – La previsione dell’art. 32 della legge n. 47/1985 – secondo la quale “il parere non è richiesto quando si tratti di violazioni riguardanti l’altezza, i distacchi, la cubatura o la superficie coperta che non eccedano il 2 per cento delle misure prescritte” [identica sia nel testo precedente, più volte modificato fino alla formulazione risultante in seguito alla legge n. 662/1996, sia in quello novellato dal d.l. n. 269/2003] – non è riferita, ad evidenza, al solo vincolo paesaggistico, bensì a tutte quelle situazioni in cui l’esistenza di un “vincolo” (quale limitazione alla sfera di godimento e disposizione di un bene per il soddisfacimento e la tutela di interessi pubblici) è affermata dal legislatore, con terminologia sicuramente generica e per alcuni versi pure impropria, in relazione a fattispecie anche molto diverse quanto a disciplina giuridica, contenuti ed effetti. Con elencazione avente carattere meramente esemplificativo può ricordarsi che l’art. 32 inerisce – oltre che ai vincoli paesistici ed ambientali – ai vincoli storici, artistici, architettonici ed archeologici; ai vincoli idrogeologici; ai vincoli previsti per i parchi e le aree naturali protette; ai vincoli derivanti dall’esistenza di usi civici; ai vincoli derivanti dalle “zone di rispetto” del demanio stradale, ferroviario ed aeroportuale, dei cimiteri; alle prescrizioni imposte per le costruzioni da eseguirsi in zone sismiche; ovvero ad altre limitazioni poste dal d.m. 1.4.1968, n. 1404. Quanto al vincolo paesaggistico, la disposizione in esame può razionalmente correlarsi soltanto ad eventuali prescrizioni poste dal piano paesaggistico, ex art. 143, 5° comma – lett. b, del d.lgs. n. 42/2004, nonché a previsioni degli strumenti urbanistici espressamente rivolte alla tutela delle caratteristiche paesaggistiche ed ambientali. D ) – Il riformulato 4° comma dell’art. 32 della legge n. 47/1985 si limita a stabilire che “ai fini dell’acquisizione del parere di cui al comma 1 si applica quanto previsto dall’articolo 20, comma 6, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380”. Il richiamato art. 20, comma 6, del d.p.r. n. 380/2001 dispone, a sua volta, che, “nell’ipotesi in cui, ai fini della realizzazione dell’intervento, sia necessario acquisire atti di assenso, comunque denominati, di altre Amministrazioni, diverse da quelle di cui all’art. 5, comma 3 [atti di assenso, cioè, diversi dal parere dell’A.S.L. e dal parere dei Vigili del Fuoco, ove necessari n.d.r.], il competente ufficio comunale convoca una conferenza di servizi, ai sensi degli artt. 14, 14bis, 14ter e 14 quater della legge n. 241/1990 e successive modificazioni”. Ai sensi dell’art. 5, comma 4, del d.P.R. n. 380/2001, l’ufficio dello sportello unico per l’edilizia cura gli incombenti necessari ai fini dell’acquisizione, anche mediante conferenza di servizi, ai sensi degli artt. 14, 14 bis, 14 ter e 14 quater della legge n. 241/1990, degli atti di assenso comunque denominati, necessari ai fini della realizzazione dell’intervento edilizio). Un’interpretazione coordinata degli artt. 20, comma 6, e dell’art. 5, comma 4, del T.U. n. 380/2001 non consente però di affermare che l’ufficio comunale sia imprescindibilmente obbligato a convocare una conferenza di servizi qualora sia necessario acquisire l’assenso di altre Amministrazioni (in difformità dal previgente art. 4, 2° comma, del d.l. n. 398/1993, che conferiva al responsabile del procedimento soltanto la facoltà discrezionale di detta convocazione). Appare corretta invece, in proposito, l’applicazione dell’art. 14, 2° comma, della legge n. 241/1990, come modificato dalla legge n. 15/2005, ove si stabilisce l’obbligatorietà della conferenza di servizi quando l’Amministrazione competente per l’adozione del provvedimento finale debba acquisire atti di assenso comunque denominati ad un’attività privata, provenienti da altre Amministrazioni, e non li ottenga entro 30 giorni dalla ricezione della relativa richiesta. Il dirigente o responsabile dell’ufficio comunale, dunque, nel termine che ha a disposizione per l’istruttoria, deve anzitutto richiedere gli atti di assenso alle altre Amministrazioni coinvolte e, solo qualora queste non si pronuncino entro 30 giorni dalla ricezione della richiesta (ovvero quando, nello stesso termine, sia intervenuto il dissenso di una o più Amministrazioni interpellate), deve essere convocata la conferenza. E ) – In conclusione, secondo la Corte, <>.
4. Le ragioni per le quali l’ermeneusi riduttiva della norma non convince appieno.
4.1. Tale complesso ragionamento, pur sottintendendo un apprezzabile sforzo ermeneutico che, nelle precedenti decisioni sul tema, non trova eguali riscontri, non pare colga nel segno soprattutto perché non del tutto aderente al dato normativo.
4.2. Intanto non appare pertinente il richiamo all’art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, secondo cui nelle zone paesaggisticamente vincolate è inibita, in assenza dell’autorizzazione già prevista dall’art. 7 della legge n. 1497 del 1939, “ogni modificazione dell’assetto del territorio attuata attraverso lavori di qualsiasi genere, non soltanto edilizi, ad eccezione dei lavori consistenti ( tra l’altro ) nella manutenzione ordinaria e straordinaria e nel consolidamento statico o restauro conservativo, purchè non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici”. Ciò perché la norma in esame disciplina gli interventi da realizzare e non anche quelli già realizzati, la cui regolarizzazione è riservata – a determinate condizioni – alle fattispecie di sanatoria straordinaria o a quella c.d. “a regime”. Sul punto, va ricordato che, come chiarito dalla stessa Cassazione penale con riferimento all’ambito di applicazione del regime autorizzatorio, avente ad oggetto le opere da eseguire “ex novo”, “non ogni opera che interessi la superficie esterna determina “alterazione”, ma esclusivamente quella che ne immuti in modo rilevante ed essenziale le sue caratteristiche ( cfr., negli esatti termini, Cass., sez. III, 26.5.1992, n. 660; negli stessi sensi, Cass., sez. III, 30.9.1993, n. 1813, e Cass., sez. III, 26.4.1999, n. 5304 ). Inoltre, il comma 26 dell’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003 non pone alcuna distinzione tra opere di manutenzione ordinaria e straordinaria idonee ad alterare lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici ed opere appartenenti alla medesima tipologia edilizia che tale idoneità invece non hanno.
4.3. Per le stesse ragioni non appare pertinente il richiamo all’art. 22 del d.P.R. n. 380 del 2001 che si occupa degli interventi “realizzabili mediante denuncia di inizio attività” e non anche – logicamente – delle opere già eseguite, in disparte ogni questione sulla riferibilità o meno della limitazione di cui al comma 6 ( obbligo del preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative ) agli “immobili sottoposti a tutela storico – artistica o paesaggistico – ambientale”, intesi come immobili in senso stretto e non anche come aree ( in ordine alla dicotomia “aree ed immobili”, cfr. l’art. 134 del codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. n. 42 cit. ), dove per immobili si intendono quelli di cui alle tipologie nn. 1 e 2 dell’articolo 1 della legge n. 1497 del 1939, cioè le cose immobili che hanno cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica, le ville, i giardini e i parchi, intendendosi designare con il termine “immobili” determinati beni – giuridicamente e catastalmente – tendenzialmente unitari . 4.4. A voler seguire l’interpretazione della Corte, la stessa non tiene conto, comunque, di quanto previsto dall’art. 149 del d.lgs n. 42 del 2004, che esclude, come è noto, l’obbligo della autorizzazione prescritta dall’articolo 146, dall’articolo 147 e dall’articolo 159: “a) per gli interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di consolidamento statico e di restauro conservativo che non alterino lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici; b) per gli interventi inerenti l’esercizio dell’attività agro-silvo-pastorale che non comportino alterazione permanente dello stato dei luoghi con costruzioni edilizie ed altre opere civili, e sempre che si tratti di attività ed opere che non alterino l’assetto idrogeologico del territorio; c) per il taglio colturale, la forestazione, la riforestazione, le opere di bonifica, antincendio e di conservazione da eseguirsi nei boschi e nelle foreste indicati dall’articolo 142, comma 1, lettera g), purché previsti ed autorizzati in base alla normativa in materia”. La deroga al regime autorizzatorio, sia pure per determinate tipologie di intervento, segna il confine, delimitando l’ambito di applicazione, nelle zone paesaggisticamente vincolate, dello stesso regime inibitorio che, pertanto, non può essere inteso come assoluto, ovvero riferito a “lavori di qualsiasi genere”. Anzi, quel che maggiormente rileva è che, mentre la disciplina introdotta dall’art. 149 cit. fa salvi ( nel senso che non ne richiede l’autorizzabilità “ex ante” ) i soli interventi edilizi minori di recupero del patrimonio edilizio esistente, l’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, al comma 43, esclude dall’obbligo del preventivo parere ( come, peraltro, già previsto dall’originaria formulazione della norma ) “le violazioni riguardanti l’altezza, i distacchi, la cubatura o la superficie coperta che non eccedano il 2 per cento delle misure prescritte”. Trattasi, con tutta evidenza, di abusi che, nella maggior parte dei casi, hanno, comunque, prodotto modifiche “alterative” con incrementi planovolumetrici e, pertanto, diversi, per loro natura e caratteristiche, dagli interventi edilizi minori di tipo “conservativo”, per i quali è escluso, come già detto, l’obbligo dell’autorizzazione qualora “non alterino” lo stato dei luoghi e l’aspetto esteriore degli edifici.
5. La difficoltà di operare correlazioni fra una normativa condonistica, eccezionale e di stretta interpretazione ( art. 32 d.l. n. 269/2003 ), ed altra generale, come quella introdotta dal Codice Urbani (d.lgs n. 42/2004) in materia di tutela dei beni culturali e del paesaggio.
5.1. Non del tutto convincente è, poi, l’argomentazione addotta dalla Corte secondo cui l’art. 32 della legge n. 47/1985, per il quale “il parere non è richiesto quando si tratti di violazioni riguardanti l’altezza, i distacchi, la cubatura o la superficie coperta che non eccedano il 2% delle misure prescritte”, inerendo – oltre che ai vincoli paesistici ed ambientali – anche a vincoli di diversa natura, come ad es., ai vincoli artistici, architettonici, archeologici ed idrogeologici, può razionalmente correlarsi, quanto al vincolo paesaggistico, “soltanto ad eventuali prescrizioni poste dal piano paesaggistico, ex art. 143, 5° comma – lett. b, del d.lgs. n. 42/2004, nonché a previsioni degli strumenti urbanistici espressamente rivolte alla tutela delle caratteristiche paesaggistiche ed ambientali” . Tale argomentazione omette di considerare, innanzitutto, che l’art. 143, 5° comma, lett. b), disciplina – in ambito regionale – l’attività pianificatoria, nella quale la (possibile) individuazione delle opere e degli interventi non soggetti ad autorizzazione paesaggistica è subordinata “alla verifica della conformità alle previsioni del piano paesaggistico e dello strumento urbanistico”, nel mentre l’ambito di operatività dell’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, nella parte in cui esclude l’obbligo del parere per le violazioni che non eccedono il 2%, è esteso – come è noto – all’intero territorio nazionale. Inoltre, la lettera c ( del comma 5 ) dell’art. 143 fa riferimento alle “aree significativamente compromesse o degradate”, nelle quali la realizzazione degli interventi di recupero e riqualificazione potrà non richiedere “il rilascio dell’autorizzazione di cui agli articoli 146, 147 e 159”. Ma tali interventi sarebbero pur sempre confinati all’interno del perimetro degli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente e, data la lettera tassativa della norma, non potrebbero giammai concretizzarsi in opere costituenti incrementi di superficie e di volume. L’art. 32, di contro, esonera dall’obbligo del parere gli interventi che hanno provocato incrementi sia di altezza che di volumetria e superficie e che, pertanto, non possono essere ricondotti al novero degli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente. A ciò aggiungasi che l’applicazione dell’art. 143, comma 5, è fatta salva dall’art. 149 (“Interventi non soggetti ad autorizzazione”) con riferimento non già alla lettera b), bensì alla lettera a). Non appare, comunque, ragionevole ed ermeneuticamente corretto operare correlazioni tra una normativa condonistica, quale quella del citato art. 32, di stretta interpretazione, come riconosciuto dalla stessa Cassazione, con altra normativa come quella introdotta dal d.lgs. n. 42 del 2004, per giunta entrata in vigore in epoca successiva ed agganciata, per quel che attiene alla pianificazione paesaggistica, ad eventi futuri ed incerti. Si richiama, a titolo esemplificativo, la disposizione di cui al comma 7 dell’art. 143, secondo cui: “Il piano può subordinare l’entrata in vigore delle disposizioni che consentono la realizzazione di opere ed interventi senza autorizzazione paesaggistica, ai sensi del comma 5, all’esito positivo di un periodo di monitoraggio che verifichi l’effettiva conformità alle previsioni vigenti delle trasformazioni del territorio realizzate”.
6. La conferenza dei servizi e la inammissibilità di un’interpretazione coordinata degli artt. 20, comma 6, e 5, comma 4, del d.P.R. n. 380/2001.
6.1. Ma il punto critico più significativo del ragionamento seguito dalla Corte per confutare le obiezioni mosse alla anzidetta interpretazione dell’art. 32, comma 26 (considerata nel ricorso non condivisibile, perché ingiustificatamente restrittiva), sta nella affermazione secondo cui, “per l’acquisizione dell’autorizzazione paesaggistica, la conferenza di servizi non è imprescindibilmente obbligatoria”. In altri termini, come già anticipato, un’interpretazione coordinata degli artt. 20, comma 6, e dell’art. 5, comma 4, del d.P.R. n. 380/01, per i giudici di legittimità, “non consente di affermare che l’ufficio comunale sia imprescindibilmente obbligato a convocare una conferenza di servizi qualora sia necessario acquisire l’assenso di altre Amministrazioni ( in difformità dal previgente art.4, 2° comma, del d.l. n. 398/1993, che conferiva al responsabile del procedimento soltanto la facoltà discrezionale di detta convocazione ). Appare corretta invece, in proposito, l’applicazione dell’art. 14, 2° comma, della legge n. 241/90, come modificato dalla legge n. 15/05, ove si stabilisce l’obbligatorietà della conferenza dei servizi quando l’Amministrazione competente per l’adozione del provvedimento finale debba acquisire atti di assenso comunque denominato ad un’attività privata, provenienti da altre Amministrazioni, e non li ottenga entro 30 giorni dalla ricezione della richiesta ( ovvero quando, nello stesso termine, sia intervenuto il dissenso di una o più amministrazioni interpellate )”. Sempre secondo la Corte, ai sensi dell’art. 5, comma 4, del d.P.R. n. 380/2001, l’ufficio dello sportello unico per l’edilizia “cura gli incombenti necessari ai fini dell’acquisizione anche mediante conferenza ai sensi degli artt. 14, 14 bis, 14 ter e 14 quater della legge n. 241/1990 di servizi, degli atti di assenso”. La qualcosa starebbe a significare, come è desumibile dalla locuzione “anche mediante conferenza”, che quest’ultima non è obbligatoria, essendo la relativa convocazione espressione di una mera facoltà discrezionale. Anche in tal caso trattasi, a ben vedere, di osservazioni che non appaiono aderenti al dettato normativo. La questione controversa attiene, infatti, all’ambito di applicazione del comma 26 dell’art. 32. Pertanto, non è dato comprendere quale valenza possa attribuirsi, in concreto, alla disposizione contenuta nell’art. 5, comma 4, del testo unico dell’edilizia, la quale è obiettivamente riferita ai procedimenti ordinari finalizzati al rilascio del permesso di costruire, con la conseguenza che la stessa, stante l’assenza di ogni richiamo o rinvio “ob relationem”, non può spiegare alcuna efficacia nella materia regolata dalla normativa sul condono che – lo si ripete – costituisce normativa di stretta interpretazione per la quale non opera l’analogia. Quel che più conta è che l’art. 32 del d.l. n. 269/2003 stabilisce, senza possibilità di interpretazioni alternative, che: “Ai fini dell’acquisizione del parere di cui al comma 1 si applica quanto previsto dall’articolo 20, comma 6, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380”. Il richiamato art. 20, comma 6, prevede, a sua volta, che: Nell’ipotesi in cui, ai fini della realizzazione dell’intervento, sia necessario acquisire atti di assenso, comunque denominati, di altre amministrazioni, diverse da quelle di cui all’art. 5, comma 3 ( atti di assenso, cioè, diversi dal parere dell’A.S.L. e dal parere dei Vigili del Fuoco, ove necessari, n.d.r. ), il competente ufficio comunale convoca una conferenza di servizi, ai sensi degli artt. 14, 14 bis, 14 ter e 14 quater della legge n. 241/1990 e successive modificazioni”. Stante il testuale tenore delle disposizioni ora citate non appare ammissibile “un’interpretazione coordinata degli artt. 20, comma 6, e dell’art. 5, comma 4, del d.P.R. n. 380/2001”. Tale interpretazione “additiva” si pone contro la lettera della norma ( di per sé sufficientemente chiara ed in quanto tale non suscettibile di alcuna interpretazione secondo il noto brocardo “in claris non fit interpretatio” ) che configura l’iniziativa del “competente ufficio comunale” quale iniziativa dovuta, priva di margini di discrezionalità. D’altra parte, l’obbligatorietà della conferenza appare giustificata dal fatto che, nelle zone assoggettate a vincolo, il legislatore del terzo condono ha ritenuto che l’amministrazione, nell’esaminare le istanze di sanatoria, non possa prescindere dall’obbligo di pronunciarsi espressamente sulle istanze medesime ( vedasi, sul punto, anche Cass. pen, Sez.III , ord. n.102 /1996, secondo cui “gli atti consultivi endoprocedimentali obbligatori – tra cui certamente rientra il parere previsto dall’art.32, comma 1, Legge n. 47 /1985 e successive modificazioni – devono essere richiesti dalla stessa autorità investita del procedimento“ ). All’esame di tali istanze, l’amministrazione provvede, in ogni caso, solo dopo aver acquisito, nei modi e nelle forme previste per la conferenza dei servizi, il parere di competenza degli altri enti coinvolti, ed “il motivato dissenso espresso da una amministrazione preposta alla tutela ambientale paesaggistico-territoriale, ivi inclusa la soprintendenza competente, alla tutela del patrimonio storico-artistico o alla tutela della salute, preclude il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria“. Trattasi di procedimento applicabile alla sola fattispecie regolata del “terzo” condono, essendo stato stabilito, al comma 43 bis dell’art. 32 del d.l. n.269/2003, che “le modifiche apportate con il presente articolo concernenti l’applicazione delle leggi 28 febbraio 1985, n.47, e 23 dicembre 1994, n.724, non si applicano alle domande già presentate ai sensi delle predette leggi”. Alla stregua di tali considerazioni non appare francamente sostenibile, sia sul piano logico che su quello giuridico, la tesi secondo cui la conferenza dei servizi sarebbe stata prevista esclusivamente per gli interventi edilizi minori. Né persuade, in contrario, la diversa opinione della Corte per la quale tale tesi non sarebbe, poi, tanto illogica dal momento che “anche l’effettuazione degli interventi di manutenzione straordinaria, restauro e risanamento conservativo, da realizzarsi in aree assoggettate al vincolo paesaggistico – ambientale, è subordinata al preventivo rilascio del parere o dell’autorizzazione richiesti dalle relative previsioni normative ( si pensi, ad esempio, al notevole impatto che può avere sul paesaggio già il solo rifacimento totale dell’intonacatura e del rivestimento esterno di un edificio qualora ne alteri il precedente aspetto esteriore )”. Si è già osservato in precedenza, in linea con quanto previsto dall’art. 149 del d.lgs. n. 42 del 2004, che, intanto gli interventi di manutenzione e restauro su immobili sottoposti a vincolo richiedono l’autorizzazione preventiva se ( e nella misura in cui ) gli stessi siano idonei a determinare alterazione dello stato dei luoghi, incidendo in modo giuridicamente rilevante sull’assetto paesaggistico della zona e sull’aspetto esteriore degli edifici (Cass., sez. III, sent. n. 39355 del 29.11.2006; Cass., sez.III, sent. n. 38051 del 28.9.2004; Cass., sez. III, sent. n. 23980 del 26.5.2004; Cass., sez. III, sent. n. 19761 del 29.4.2003; Cass., sez. III, sent. n. 14461 del 28.3.2003; Cass., sez. III, sent. n.12863 del 20.3.2003). Negli altri casi l’autorizzazione è esclusa e gli interventi in questione sono sempre ammissibili. D’altronde, come ritenuto dalla Corte Costituzionale con sentenza del 23.6.2000, n. 238, avuto riguardo proprio agli immobili condonati (la cui legittimità rispetto alle previsioni urbanistiche deriva solo dalla sanatoria-condono ), “la privazione della possibilità ( in via assoluta e generale, senza alcuna valutazione di compatibilità concreta, circa il modo e l’entità degli interventi, con le esigenze di tutela ambientale e – si può aggiungere – urbanistica ), per il titolare del diritto di proprietà su di un immobile, di procedere ad interventi di manutenzione, aventi quale unica finalità la tutela della integrità della costruzione e la conservazione della sua funzionalità, senza alterare l’aspetto esteriore (sagoma e volumetria) dell’edificio, rappresenta certamente una lesione al contenuto minimo della proprietà . Infatti, l’anzidetto divieto incide addirittura sulla essenza stessa e sulla possibilità di mantenere e conservare il bene (costruzione) oggetto del diritto, producendo un inevitabile progressivo abbandono e perimento (strutturale e funzionale) del medesimo. Deve, pertanto, escludersi la legittimità di una disposizione che comporta per il proprietario, ancorchè non espropriato della titolarità, uno svuotamento del suo diritto nel modo più irrimediabile e definitivo, e cioè con graduale degrado e perimento del bene (costruzione) ed una progressiva inutilizzabilità e distruzione dell’edificio, in rapporto alla destinazione inerente alla sua natura, (conforme a licenze, concessioni e autorizzazioni ancorchè in sanatoria)”. [ negli stessi sensi, cfr. sentenza n. 529 del 1995]. Va, peraltro, ribadito che l’art. 32, comma 26, prevede per interventi di manutenzione e restauro, da eseguirsi su immobili assoggettati a vincolo, la necessaria acquisizione “del parere o dell’autorizzazione richiesti”, abbiano o meno – tali interventi – prodotto alterazione dello stato dei luoghi e dell’aspetto esteriore degli edifici. Avendo la norma ( art. 32, comma 4) stabilito che il parere va acquisito, ai sensi dell’art. 20, comma 6, del d.P.R. n. 380 del 2001, ovvero mediante conferenza dei servizi, può fondatamente sostenersi che la sanatoria introdotta dal d.l. n. 269 del 2003, per le opere eseguite su immobili sottoposti a vincolo, è limitata ai soli abusi minori, compresa la manutenzione che dalla disciplina ordinaria è esonerata dall’obbligo dell’autorizzazione preventiva ( quantomeno nei casi in cui la stessa non determini “alterazione”)? E che dire, poi, della previsione secondo cui, in sede di conferenza di servizi, il mancato dissenso espresso da una amministrazione preposta alla tutela ambientale, paesaggistico-territoriale, inclusa la soprintendenza competente, preclude il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria ? È ragionevole ritenere, anche alla luce dei principi affermati dalla Corte Costituzionale, nelle decisioni sopra riportate, sul “contenuto minimo” della proprietà, che possa essere negato l’assenso alla sanatoria di una manutenzione straordinaria eseguita senza titolo che non abbia determinato alterazione, per giunta all’esito di una conferenza di servizi?
7. La circolare esplicativa del Ministero delle Infrastrutture n. 52/2006 e la sentenza della Corte Costituzionale n. 49/2006, secondo cui la sanabilità delle opere realizzate in zona vincolata è da escludere solo se si tratti di vincolo di inedificabilità assoluta.
7.1. Non pare decisivo – sul piano della interpretazione del comma 26 – il richiamo alla relazione governativa al d.l. n. 269 del 2003, secondo la quale “…. è fissata la tipologia di opere insanabili tra le quali si evidenziano … quelle realizzate in assenza o in difformità del titolo abilitativo edilizio nelle aree sottoposte ai vincoli imposti sulla base di leggi statali e regionali a tutela degli interessi idrogeologici, ambientali e paesistici… Per gli interventi di minore rilevanza ( restauro e risanamento conservativo ) si ammette la possibilità di ottenere la sanatoria edilizia sugli immobili soggetti a vincolo previo parere favorevole da parte dell’autorità preposta alla tutela. Per i medesimi interventi, nelle aeree diverse da quelle soggette a vincolo, l’ammissibilità alla sanatoria è rimessa ad uno specifico provvedimento regionale”. A prescindere dai limiti dell’efficacia delle enunciazioni contenute nella Relazione governativa in sede di Interpretazione del testo normativo – limiti dei quali è consapevole la stessa Corte – va detto, di contro, che la circolare esplicativa del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti pubblicata in G.U. il 3 marzo 2006, n. 52, non contiene alcun riferimento alla interpretazione restrittiva espressa dai giudici della nomofilachia. L’interpretazione fornita dal Ministero delle Infrastrutture sembra avallare la tesi secondo cui, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte, la sanabilità delle opere realizzate in zona vincolata è da escludere solo se si tratti di vincolo di inedificabilità assoluta (divieti di edificazione o prescrizioni di inedificabilità ex art. 33 legge n. 47 del 1985) e non anche nella diversa ipotesi di vincolo di inedificabilità relativa, ovvero di vincolo di tutela suscettibile di essere rimosso mediante un giudizio ex post di compatibilità delle opere da sanare da parte della competente autorità (cfr. Cons. Stato, Sez. V, sent. n. 696 del 4 maggio 1995). La Corte Costituzionale, con sentenza n. 49 del 2006, ha, infatti, ritenuto che l’art. 3, comma 1, della legge della Regione Lombardia n. 31 del 2004 non sia in contrasto con quanto previsto dall’art. 32, comma 27, lettera d), del decreto legge n. 269 del 2003, norma quest’ultima che, secondo l’interpretazione della Cassazione penale, renderebbe di fatto inapplicabile il condono edilizio nelle aree assoggettate a vincolo, nelle quali potrebbero essere sanati, come si è visto, soltanto gli interventi edilizi c.d. minori. La Consulta ha dichiarato costituzionalmente legittima la disposizione regionale censurata, giacché, a suo avviso, tale norma si limita oggettivamente << a recepire la normativa statale concernente la sanatoria degli abusi realizzati nelle aree vincolate, senza introdurre ipotesi di sanatoria ulteriori rispetto a quelle previste dal decreto – legge n. 269 del 2003 >>. Eppure, la Presidenza del Consiglio dei Ministri – con l’Avvocatura generale – aveva, nel ricorso introduttivo, fortemente sostenuto l’esatto contrario, denunciando il contrasto della disposizione censurata con l’art. 117, terzo comma, Cost. e con il principio posto dall’art. 32, comma 27, lettera d), del decreto – legge n. 269, che << non consente la sanatoria delle opere realizzate su aree comunque vincolate >>, e senza che lo stesso operi una distinzione tra vincoli di inedificabilità assoluta e vincoli di inedificabilità relativa. La norma regionale, <>, violava anche l’art. 117, secondo comma, lettera I), Cost. in quanto invadeva l’ambito della competenza statale esclusiva in materia di ordinamento civile e penale. Solo in una successiva memoria, l’Avvocatura dello Stato aveva, peraltro, ritenuto coerente con la normativa statale l’interpretazione datane dalla difesa regionale, nel senso che l’Amministrazione non avrebbe fatto altro che ribadire e consacrare, anche in un proprio testo legislativo, quanto già previsto dalla legislazione statale, all’art. 32, comma 27, lettera d). La pronuncia della Corte Costituzionale segna indubbiamente un punto a favore di chi non condivide l’interpretazione restrittiva della Corte di Cassazione in ispecie sul versante degli effetti penali della sanatoria nelle aree assoggettate a vincolo paesistico – – – – . Questo sembra lasciare intendere, sia pure per via indiretta, il Giudice delle leggi nella sentenza n. 49, in cui si sottolinea – lo si ripete – in coerenza con la norma statale, che non tutti i vincoli sono ostativi alla sanabilità ma solo quelli di inedificabilità assoluta. Il rigetto della tesi sostenuta dalla Cassazione affonda le sue radici, a ben vedere, anche in altre ragioni, in gran parte ancorate ai precedenti insegnamenti della stessa Corte anche a Sezioni Unite (cfr, ex plurimis, Cass. SS.UU. n. 22 del 1999, già citata). La fragilità delle argomentazioni addotte è da collegare, in primo luogo, al tentativo – mal riuscito – dei giudici di legittimità di porre sullo stesso piano gli effetti penali ed amministrativi del condono. Ma, già con la sentenza n. 196 del 2004, la Corte Costituzionale aveva avvertito l’esigenza di chiarire che la nuova normativa di condono << si ricollega sotto molteplici aspetti ai precedenti condoni edilizi che si sono succeduti dall’inizio degli anni ottanta, il che è reso del tutto palese dai molteplici rinvii contenuti nell’art. 32 alle norme concernenti i precedenti condoni, con una tecnica normativa che crea una esplicita saldatura tra il nuovo condono ed il testo risultante dai due precedenti condoni edilizi di tipo straordinario, cui si apportano solo alcune limitate innovazioni >>. Sempre nella sentenza n. 196 la Corte Costituzionale aveva rimarcato con maggior vigore rispetto al passato il rapporto (e la non necessaria coesistenza) tra effetti amministrativi ed effetti penali della sanatoria, precisando, altresì, come permanga anche con il nuovo condono edilizio la caratteristica fondamentale di mantenere collegato il condono penale con la sanatoria amministrativa, in quanto l’integrale pagamento dell’oblazione, oltre a costituire il presupposto per l’estinzione dei reati edilizi, estingue anche i relativi procedimenti di esecuzione delle sanzioni amministrative e costituisce uno dei requisiti per il rilascio del titolo abilitativo edilizio in sanatoria (art. 32, commi 32 e 37, del decreto – legge n. 269 del 2003). Peraltro, ciò non esclude che, pagata interamente l’oblazione, ai sensi dell’art. 39 della legge n. 47 del 1985 (applicabile – come gli artt. 38 e 44 – in virtù del richiamo operato dal comma 25 dell’art. 32 cit. agli interi capi IV e V della legge n. 47 del 1985), pur in presenza di diniego di sanatoria, si estinguano i reati edilizi e si riducano in misura pari all’oblazione versata le sanzioni amministrative consistenti nel pagamento di una somma di danaro. In altri termini, il potere del giudice penale di non applicare la speciale causa estintiva prevista dalla sanatoria straordinaria (e naturalmente anche di non sospendere il giudizio per i reati ai quali la stessa si riferisce) può essere esercitato nella sola ipotesi in cui dagli atti emerga verosimilmente la violazione, da parte del contravventore, dei limiti temporali e volumetrici nella esecuzione delle opere e non anche quando tali opere non appaiano suscettibili di sanatoria sul piano strettamente amministrativo. A tali fini, come si è visto, persino il diniego di sanatoria della P.A. rappresenta un elemento neutro e del tutto inidoneo a determinare l’esclusione della operatività della causa estintiva, ricollegata – lo si ripete – al solo pagamento dell’oblazione in misura congrua secondo quanto previsto dal richiamato art. 39 della legge n. 47 del 1985. Del resto, sempre sul versante amministrativo, la Cassazione non spiega perché nelle aree vincolate maggiormente “sensibili”, come quelle demaniali, sulle quali siano state eseguite opere abusive, il legislatore del 2003 (art. 32, comma 17) si sia accontentato di subordinare la disponibilità alla cessione dell’area al solo rilascio del parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo (che, pertanto, fungerebbe da vincolo relativo, perché rimuovibile ad opera della competente autorità, e non assoluto). Né appare di qualche rilievo la circostanza addotta dalla Corte nella sentenza in commento, per la quale “tale disposizione, riferita alle opere eseguite da terzi su aree di proprietà dello Stato o facenti parte del demanio statale, è significativamente limitata dall’esclusione (posta dal precedente comma 14) del demanio marittimo lacuale e fluviale, nonché dei terreni gravati da diritti di uso civico ( immobili assoggettati a vincolo paesaggistico ex lege)” e che la stessa debba tener conto “dell’ampia nozione di vincolo” che l’art. 32 della legge n. 47/1985 presuppone. Anche qui la norma – nel prevedere una fattispecie di sanatoria a condizione – è sufficientemente chiara e non può essere manipolata con interpretazioni additive, contra o praeter legem. Non spiega la Cassazione perché il controverso comma 26 arrivi a ritagliare un’eccezione all’ambito oggettivo di applicabilità della sanatoria per i soli abusi realizzati su immobili dichiarati monumento nazionale, omettendo di menzionarne altri. La norma prevede, infatti, che sono suscettibili di sanatoria edilizia (tutte) le tipologie di illecito di cui all’allegato 1: a) numeri da 1 a 3 nell’ambito dell’intero territorio nazionale, fermo restando quanto previsto dalla lettera e) del comma 27, nonché 4, 5 e 6 nell’ambito degli immobili soggetti a vincolo di cui all’art. 32 della legge n. 47/1985. La sanatoria abbraccia, dunque, tutte le tipologie di illecito da 1 a 3 (opere nuove senza titolo edilizio o in difformità, in contrasto con gli strumenti urbanistici o conformi agli strumenti urbanistici; ristrutturazioni senza titolo o in difformità dal titolo), escludendo espressamente le sole opere abusive realizzate su immobili assoggettati a vincolo storico – artistico ai quali si riferisce il comma 27, lettera e). Che necessità avrebbe avuto il legislatore, ove la disposizione del comma 26 fosse effettivamente da interpretare nel senso che nelle aree vincolate sono sanabili solo gli interventi edilizi “minori”, di collegare agli abusi “maggiori” le opere eseguite senza titolo su immobili dichiarati monumento nazionale, per giunta vincolati “in individuo” ? E lo stesso comma 27 nemmeno avrebbe avuto motivo di esistere in quanto in esso si fa riferimento a tutti i vincoli riconducibili all’ambito di applicazione dell’art. 32 della legge n. 47 del 1985. Privo di giustificazione sul piano logico sarebbe stato anche prevedere, come in effetti è avvenuto, con la formulazione della lettera d), che la mancata dimostrazione della conformità delle opere alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici determina l’insanabilità delle opere per le quali è stato richiesto il beneficio condonistico. La sentenza della Corte Costituzionale n. 49 sembra rafforzare – sul piano interpretativo – il convincimento di chi – come lo scrivente – ritiene che l’unico parametro normativo da considerare per delimitare l’ambito oggettivo di applicazione della sanatoria straordinaria nelle aree sottoposte a vincolo sia rappresentato non già dal comma 26 ma piuttosto dal comma 27, lettera d), del d.l. n. 269 del 2003. La Consulta, infatti, non solo omette ogni riferimento al suindicato comma 26 ma, anzi, finisce per offrire una lettura più ampliativa dello stesso comma 27, lettera d), laddove precisa che i soli vincoli di inedificabilità assoluta e non anche quelli di inedificabilità relativa possano essere considerati ostativi alla sanabilità. In altre parole, nelle aree sottoposte a vincolo, sempre che non si tratti di vincolo di inedificabilità assoluta, le opere abusive potranno essere sanate laddove si dimostri la conformità delle stesse alla normativa urbanistica, previo parere favorevole dell’autorità preposta alla tutela del vincolo, come disciplinato dal nuovo testo dell’art. 32 della legge n. 47/85, nella formulazione introdotta dal comma 43 del decreto – legge n. 269 del 2003 (che prevede una conferenza di servizi cui partecipa necessariamente anche la Soprintendenza territorialmente competente, il cui parere è vincolante).
8. Conclusioni.
8.1. Ovviamente la difficoltà del tema e le stesse difficoltà applicative della nuova disciplina lasciano immutata la problematica relativa alla “affidabilità del condono edilizio” E’ condivisibile l’opinione di chi sostiene che “il terzo condono non sia risultato affatto appetibile, sia per il prezzo richiesto ( misura dell’oblazione, oneri concessori e quant’altro ), sia per la rigidità delle limitazioni imposte alla sanabilità delle opere abusive. La sanabilità delle opere realizzate nelle aree sottoposte a vincolo paesaggistico costituisce un esempio emblematico: da una parte, l’oscurità del testo legislativo ha indotto gli interessati al condono a presentare, comunque, la relativa domanda versando anche l’oblazione, dall’altra parte la giurisprudenza sempre più consolidata nega la condonabilità di siffatte opere”. Era questo l’effettivo intento del legislatore dal momento che buona parte dell’intero territorio nazionale è sottoposto a vincolo paesaggistico? Può aver inciso sulla pessima scrittura del testo normativo la radicata conflittualità esistente tra Stato ( Governo centrale ) e Regione e una larga area dell’opinione pubblica contraria all’applicazione del beneficio? Come affrontare il futuro con nodi normativi e giurisprudenziali così difficili da districare? I Comuni sono pronti a disinnescare gli effetti del terzo condono, dichiarando, nella stragrande maggioranza dei casi, la inammissibilità delle domande relative a nuove costruzioni, in attuazione dell’indirizzo restrittivo della Suprema Corte, e ad agire di conseguenza ( procedendo alla demolizione delle opere che ne sono oggetto ), dopo che lo Stato ha, comunque, incamerato quanto era nelle sue aspettative e senza che ciò abbia avuto la minima incidenza sui procedimenti penali in corso? Agli stessi l’ ”ardua sentenza”!