03.2006 - Nuovo condono edilizio e leggi regionali. Il caso “Campania”: no della Consulta alla legge fuori tempo massimo. (nota a margine della sentenza della Corte costituzionale n. 49 del 2006).

03.2006 – Nuovo condono edilizio e leggi regionali. Il caso “Campania”: no della Consulta alla legge fuori tempo massimo. (nota a margine della sentenza della Corte costituzionale n. 49 del 2006).

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Sommario: 1. Rapporti tra legislazione statale e normativa regionale: può una scadenza temporale determinare una sottrazione di competenza alle regioni? 1.1. La perentorietà del termine previsto dall’art. 5, comma 1, del decreto – legge n. 168 del 2004. 2. Le norme ancora in vita del testo “anticondono” della Campania. 3. Quale sorte per le domande di sanatoria presentate secondo le disposizioni dichiarate incostituzionali? 4. Gli effetti della sentenza n. 49 del 2006 sul bilancio regionale. in particolare: l’obbligo di restituzione del 10 per cento dell’oblazione. 5. Si profila all’orizzonte una riapertura dei termini?

1. Rapporti tra legislazione statale e normativa regionale: può una scadenza temporale determinare una sottrazione di competenza alle regioni?

Tra le varie questioni relative al nuovo condono edilizio sottoposte al vaglio della Corte Costituzionale dall’Avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei Ministri, che, con distinti ricorsi notificati tra il 20 dicembre 2004 e il 13 gennaio 2005, aveva impugnato numerose disposizioni di ben sette leggi regionali (dell’Emilia Romagna, n. 23 del 2004, della Toscana, n. 53 del 2004, delle Marche, n. 23 del 2004, della Lombardia, n. 31 del 2004, del Veneto, n. 21 del 2004, dell’Umbria, n. 21 del 2004, e della Campania, n. 10 del 2004), assumeva carattere logicamente preliminare quella del mancato rispetto del termine – ad opera della Regione Campania – previsto dall’ art. 5, comma 1, del decreto – legge n. 168 del 2004, convertito dalla legge n. 191 del 2004, per l’emanazione della legge di cui all’art. 32, comma 26, del decreto – legge n. 269 del 2003, convertito dalla legge n. 326 del 2003.

Come si ricorderà, la prescrizione del termine di quattro mesi contenuta nel decreto – legge n. 168 dava attuazione a quanto espressamente statuito al punto 7 del dispositivo della sentenza della Corte Costituzionale n. 196 del 2004, la quale aveva dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 32 del decreto – legge n. 269 del 2003 “nella parte in cui non prevede che la legge regionale di cui al comma 26 debba essere emanata entro un congruo termine da stabilirsi dalla legge statale”.

Nel ricorso del Presidente del Consiglio, iscritto al n. 9 del 2005, l’Avvocatura generale aveva eccepito, in particolare, l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, 3 (eccettuate le lettere b e d del comma 2), 4, 6 (limitatamente ai commi 1, 2 e 5) e 8 della legge della Regione Campania, per essere stati emanati quando era oramai decorso il termine di quattro mesi, scaduto il 12 novembre 2004, traducendosi tale inadempimento nella violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. e del principio di “leale cooperazione”, in quanto, decorso il termine suddetto, la potestà normativa regionale avrebbe potuto essere esercitata soltanto recependo la normativa statale già divenuta applicabile, “senza possibilità di contraddirla”.

Nel costituirsi in giudizio, la Regione Campania aveva contestato con diffuse argomentazioni l’ammissibilità e la fondatezza del ricorso statale. Tra queste assumevano significativa rilevanza quella concernente il rapporto tra legislazione statale e normativa regionale in una materia (governo del territorio) “concorrente” e quella – non meno importante – della impossibilità che una scadenza temporale determini, in concreto, una sottrazione di competenza alle Regioni.

Peraltro, l’inammissibilità del ricorso statale sarebbe derivata – per la difesa regionale – dal modo (dubitativo) in cui erano state sollevate le censure e l’infondatezza dal rilievo che il termine di quattro mesi non poteva essere qualificato come perentorio, soprattutto “tenuto conto dei contenuti che la legge regionale doveva possedere e dei profili partecipativi, anche non formalizzati, degli enti locali”, che la Corte stessa aveva segnalato come esigenza forte di un sistema delle scelte basato sulla partecipazione più ampia.

In sostanza, secondo la Regione, il termine in questione era posto a presidiare la effettiva reciproca collaborazione tra i livelli di governo al fine di consentire la operatività della scelta condonistica.

Inoltre, il legislatore statale non aveva considerato con esattezza il portato della statuizione del giudice costituzionale e – del resto – la complessità dell’intervento regionale era stata in un certo senso confermata anche dalla legge di conversione del decreto – legge (legge 30 luglio 2004, n. 191).

Altra problematica di spessore era quella della effettiva collocazione del suddetto termine.

Infatti, solo nella legge di conversione si prevedeva la “sanzione” della reviviscenza, laddove non fosse intervenuta la legge regionale, della normativa contemplata nel decreto – legge n. 269 del 2003.

Vertendosi, poi, in tema di emendamenti apportati in sede di conversione, era del tutto coerente con il sistema costituzionale, ed anche conforme alla previsione contenuta nella legge n. 400 del 1988, che il “dies a quo” coincidesse con la data di entrata in vigore della legge di conversione e, pertanto, decorresse dal 1° agosto 2004 (e non, invece, dal 12 luglio 2004, data in cui il decreto – legge n. 168 iniziava a produrre i suoi effetti).

La Corte, con la sentenza n. 49 del 2006, oggetto del presente contributo, ha ritenuto ammissibili le questioni sollevate, pur se relative solo ad alcune disposizioni della legge della Regione Campania n. 10 del 2004, malgrado l’eccezione prospettata dalla difesa regionale secondo la quale le censure – lamentandosi la sussistenza di un vizio formale – avrebbero dovuto investire l’intera legge. Ciò perché il rispetto del termine di quattro mesi riguarda “ esclusivamente le disposizioni che, specificando l’ambito degli interventi condonabili sul versante amministrativo, si discostano dalle previsioni dell’art. 32 del decreto – legge n. 269 del 2003, così come modificato dalla legge di conversione n. 326 del 2003, e come risultante a seguito della dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale ad opera della sentenza n. 196 di questa Corte. Non incontra, invece, limiti temporali del genere il potere legislativo regionale che si svolge in conformità dell’art. 32 o nell’ambito di una qualsiasi ordinaria materia legislativa di competenza della Regione “.

1.1. La perentorietà del termine previsto dall’art. 5, comma 1, del decreto – legge n. 168 del 2004.

Passando all’esame del merito, la Corte ha ritenuto fondate le doglianze statali, rilevando, innanzitutto, quanto alla perentorietà del termine, che, già nella motivazione della precedente sentenza n. 196 del 2004, “il congruo” termine da stabilirsi dalla normativa nazionale era stato configurato proprio come perentorio, tanto da prevedere addirittura che, “ ove le Regioni non esercitino il proprio potere entro il termine prescritto, non potrà che trovare applicazione la disciplina dell’art. 32 e dell’Allegato 1 del decreto – legge n. 269 del 2003, così come convertito in legge”.

Quanto al fatto che il termine di quattro mesi dovesse decorrere, secondo la difesa regionale, non già dalla entrata in vigore del decreto – legge n. 168, bensì dalla data di entrata in vigore della legge di conversione n. 191, introduttiva di emendamenti con l’aggiunta di un secondo periodo al testo del comma 1 dell’art. 5, la Corte ha osservato che “ quest’ultimo periodo non fa altro che parafrasare il contenuto della sentenza n. 196 del 2004 (prima citato) a proposito della applicabilità della normativa statale in caso di mancato esercizio nel termine del potere legislativo regionale “ e che, inoltre, il riferimento al termine di quattro mesi è contenuto nel primo periodo del comma 1 dell’art. 5 ed individua in modo espresso, come dies a quo, “la data di entrata in vigore del presente decreto”.

La Corte ha, infine, dichiarato la manifesta infondatezza della richiesta che sempre la difesa regionale aveva formulato in via subordinata di “ sollevare davanti a sé la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto – legge n. 168 del 2004”, nella parte in cui limita a soli quattro mesi il termine per l’esercizio della potestà legislativa regionale, trattandosi di termine incongruo rispetto alla pluralità di contenuti e alla complessità delle scelte che il legislatore regionale doveva operare “.

Sul punto, la Corte ha motivato il rigetto col fatto che “numerose Regioni hanno adottato questa legislazione entro il termine prescritto, senza che emergessero problemi particolari”.

Quest’ultima affermazione, per la sua estrema laconicità e per il taglio più di carattere pratico che giuridico della motivazione addotta, si presta, invero, a qualche riflessione critica.

Va, in primo luogo, sottolineato che la difesa regionale aveva denunciato con forza l’incongruità del termine di quattro mesi, posto in violazione dell’art. 117, comma 3, Cost., e dei principi di leale cooperazione e di ragionevolezza (in tale termine dovendosi, per di più, ricomprendere anche il periodo estivo), “ per concludere un procedimento che deve tener conto della complessità e diversità delle realtà politiche locali, della necessità di un corretto, ampio e libero dibattito politico, di un adeguato confronto fra le forze sociali e politiche in campo, nonché del ruolo dei comuni che indubbiamente possano influire sul procedimento legislativo regionale in materia sia informalmente, sia, in particolare, usufruendo dei vari strumenti di partecipazione previsti dagli Statuti e dalle legislazioni delle Regioni. E tanto anche alla luce dell’insegnamento contenuto nella sentenza n. 196 del 2004 secondo cui il termine per l’esercizio della potestà legislativa regionale doveva essere congruo rispetto alla complessità delle scelte spettanti alle autonomie regionali “.

La Corte ha fugato il dubbio di legittimità costituzionale con un rilievo oltremodo sbrigativo, basato, come si è visto, soltanto su un dato empirico, quello dell’avvenuto esercizio, nel medesimo termine ritenuto incongruo, della potestà legislativa da parte delle altre regioni sottoposte a scrutinio di legittimità costituzionale.

Così risolvendo la questione, la Corte ha, tuttavia, omesso di soppesare la diversa “sensibilità istituzionale” delle regioni interessate, non tenendo in debito conto la volontà dell’amministrazione regionale della Campania di operare una scelta tanto necessitata, a seguito della sentenza n. 196 del 2004, quanto delicata per gli interessi in gioco, al punto da avvertire come ineludibile l’esigenza di dover coinvolgere in tale scelta anche i comuni, quali enti destinatari più diretti dell’opzione condonistica, sulle iniziative da assumere, in ispecie sul versante della programmazione futura dell’uso del territorio.

La Corte non ha, inoltre, chiarito – da un lato – perché aveva ritenuto in precedenza incongruo un termine di soli 60 giorni per interventi (sul piano del contenuto e della partecipazione) assai più limitati, dall’altro perché ha ritenuto congruo il termine di quattro mesi assegnato alle regioni, per giunta comprensivo del periodo estivo, decorrendo lo stesso dal 12 luglio 2004 secondo la meno controversa delle interpretazioni.

Eppure, la difesa regionale aveva avvertito che la declaratoria di illegittimità dell’intervento regionale per il decorso di un termine ritenuto perentorio si pone essa stessa come negazione dell’autonomia politica legislativa. Assumere, infatti, che una funzione libera per definizione, come quella legislativa, che non consente, sotto questo aspetto, alcuna distinzione di livelli, ancor di più sulla base del nuovo impianto costituzionale, possa esaurirsi per il decorrere di un termine finisce per negare la stessa ragion d’essere della sintesi politica che le aule rappresentative, dotate di potestà legislativa, devono esprimere.

Laddove vi deve essere il confronto fra forze politiche differenti, e nel dibattito e nella decisione conseguente si deve esprimere la garanzia più alta di una regola voluta attraverso un procedimento che a tutti consenta di partecipare, l’imposizione di un termine da parte dello Stato, che addirittura comporti che il potere regionale si consumi e la competenza si dissolva, rappresenta una evenienza idonea a minare alla sua base, con effetti devastanti, l’intero sistema delle autonomie.

A tali quesiti e doglianze regionali la Consulta non ha, purtroppo, fornito adeguata risposta.

2. Le norme ancora in vita del testo “anticondono” della Campania.

Dopo l’intervento della Corte Costituzionale, quali sono tra le disposizioni contenute nella legge della Regione Campania n. 10 del 2004 quelle rimaste ancora in vita?

Al riguardo è opportuno premettere che la normativa in discorso si componeva di 11 articoli, dei quali solo alcuni erano espressione dell’esercizio del potere legislativo svolto in conformità dell’ art. 32 del decreto – legge n. 269 del 2003 ed altri afferenti ad ordinarie materie legislative di competenza della Regione.

L’art. 1, recante l’oggetto della legge, ovvero la disciplina circa la possibilità, le condizioni e le modalità per l’ammissibilità a sanatoria degli abusi edilizi, nonché le norme per la definizione dei procedimenti amministrativi relativi al rilascio dei titoli abilitativi in sanatoria, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo in quanto emanato oltre il termine dei quattro mesi.

L’art. 2 è tuttora vigente, in quanto non è stato impugnato dal Presidente del Consiglio dei Ministri.

Esso si occupa, fra l’altro, della definizione degli immobili soggetti a vincoli di tutela, ampliando il significato della nozione di immobile, nella quale vengono ricomprese anche le aree (“bellezze panoramiche di insieme”), oltre agli immobili singolarmente considerati, imposti in applicazione del “regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3267; della legge 1 giugno 1939, n. 1089; della legge 29 giugno 1939, n. 1497; della legge 8 agosto 1985, n. 431; della legge 6 dicembre 1991, n. 394; del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n.490; del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42; di disposizioni derivanti dalla normativa comunitaria o di altre leggi statali e regionali, anche a protezione degli interessi idrogeologici, delle falde acquifere, dei parchi e delle aree protette nazionali e regionali”.

L’Avvocatura generale, nel ricorso proposto nell’interesse dello Stato, ha ritenuto l’art. 2 della legge in esame “ non innovativo, neppure nella parte individuata con la lettera c), posto che la parola “immobili” contenuta nell’art.32, comma 27, lettera d), del d.l. n. 269 del 2003 non si reputa possa ricevere una interpretazione restrittiva che in essa includa solo i fabbricati ( o manufatti ) e da essa escluda le “aree (di sedime e non) ed i contesti ambientali “.

L’art. 3, comma 2, lettera a), “con i connessi commi 3 e 4”, e l’art. 4, comma 1, lettera c), erano stati impugnati sia perché emanati fuori termine, sia perché estendevano l’ambito degli interventi sanabili in ragione del riferimento alle norme urbanistiche o alle prescrizioni degli strumenti urbanistici vigenti (alla data di esecuzione delle opere abusive) anche se meno severi di quelli vigenti alla data di entrata in vigore del decreto – legge n. 269 del 2003, con conseguente violazione dell’art. 117 Cost., stante l’evidente contrasto con i principi fondamentali posti dalla normativa statale anche in materia di “ordinamento civile e penale”.

L’art. 3, comma 2, lettera c), era stato impugnato sia perché emanato fuori termine, sia perché disponeva che non possono essere sanate le opere “realizzate su aree facenti parte o di pertinenza del demanio pubblico”; inoltre, non distinguendo tra demanio statale e demanio provinciale e comunale, finiva per estendere l’ambito delle ipotesi di esclusione dalla sanabilità già prevista dall’art. 32, comma 14, del decreto – legge n. 269 del 2003, in violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.

L’art. 4, comma 1, lettera d), era stato impugnato sia perché emanato oltre il termine, sia perché in contrasto con gli artt. 3, 42, 81, 117 e 119 Cost., ammettendo a sanatoria gli interventi che “ hanno comportato un ampliamento del manufatto già oggetto di condono ai sensi delle disposizioni di cui alla legge 28 febbraio 1985, n. 47, capi IV e V, o ai sensi della legge 23 dicembre 1994, n. 724, articolo 39, inferiore al cinque per cento della volumetria della costruzione originaria, sempre che l’ampliamento non superi complessivamente i cento metri cubi “.

L’art. 3 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo perché emanato fuori termine, ad eccezione delle lettere b) e d) del comma 2, non impugnate.

L’art. 4 è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nel suo complesso, perché emanato anch’esso fuori termine.

Dell’art. 3 è rimasta in vita, dunque, la lettera d) relativa agli abusi insuscettibili di sanatoria perché realizzati nei 18 comuni della “zona rossa” del Vesuvio ed aventi destinazione residenziale.

Peraltro, l’esclusione in detta lettera d) ed anche nell’art. 5 della legge della Regione Campania 10 dicembre 2003, n. 21, dei manufatti a destinazione non residenziale era apparsa poco razionale alla Avvocatura generale dello Stato che, nel ricorso alla Corte Costituzionale, aveva omesso di censurare tale specifica disposizione, sol perché non riconducibile alla legge regionale “ prevista dal comma 26 dell’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, a differenza di altre che avrebbero dovuto essere prodotte entro il (non osservato) termine “.

Se la ragione della insanabilità era ( ed è ) da ricercare nell’esigenza di salvaguardare la pubblica e privata incolumità dal rischio di eruzioni, evitando di consolidare situazioni di manufatti abusivi soggetti a frequentazione umana, effettivamente non si comprende come il legislatore regionale abbia potuto limitare l’ambito oggettivo della insanabilità ai soli insediamenti con destinazione residenziale, quasi che per quelli a destinazione non residenziale la presenza dell’uomo sia da escludere o sia da ritenere, comunque, saltuaria od occasionale.

Sempre dell’art. 3 è rimasta in vita, perché non impugnata, anche la lettera b) del comma 1, in cui “si considerano ultimate le opere edilizie completate al rustico comprensive di mura perimetrali e di copertura e concretamente utilizzabili per l’uso cui sono destinate”.

Tale disposizione, per come formulata, rappresenta – a ben veder – il cavallo di Troia per disinnescare, comunque, gli effetti del condono nazionale, già scarsamente incisivi sul versante amministrativo per essere buona parte dell’intero territorio regionale assoggettato a vincolo paesistico.

La norma in questione, inoltre, non appare coerente con i principi di logica e ragionevolezza nella parte in cui pretende che il manufatto da sanare al rustico, se destinato a scopo abitativo, debba risultare anche concretamente utilizzabile per tale uso.

Va ricordato, in proposito, che la vasta giurisprudenza formatasi sotto la vigenza dell’art. 31 della legge n. 47 del 1985 e dell’art. 39 della legge n. 724 del 1994 ha più volte ribadito che “la nozione di ultimazione dell’immobile ai fini dell’applicazione della sanatoria edilizia deve essere in ogni caso tratta dalla formulazione dell’articolo 31 della legge 47/85, che considera tali gli edifici per i quali sia completato il rustico ed eseguita la copertura (ovvero, quanto alle opere interne o agli edifici già esistenti e a quelle non destinate alla residenza, quando esse siano state completate funzionalmente), essendo la normativa del 1985 espressamente richiamata dalla legge 724/94” (v., per tutte, Cass., Sez. III, sent. n. 9011/97).

Ciò vale anche per l’art. 32 del decreto – legge n. 269 del 2003, il cui comma 25 richiama espressamente le disposizioni contenute nei capi IV e V della legge n. 47/85 (nel cui ambito è ricompreso il citato art. 31).

Anche le tamponature – secondo la Suprema Corte – costituiscono elementi essenziali dell’edificio ultimato al rustico, “indipendentemente dal fatto che siano o debbano essere eseguite in muratura o con pannelli prefabbricati, né può trovare applicazione qualunque altra regolamentazione che modifichi, con il significato della norma, il precetto penale” (Cass., Sez. III, sent. n. 9011 cit.).

Nell’affermare tale principio, il giudice della nomofilachia ha perciò disapplicato la circolare del Ministero dei Lavori Pubblici n. 3357/85 del 30.7.1985, nella parte in cui prevede che deve essere considerato ultimato il fabbricato privo di tamponature, quando è previsto che le stesse debbano essere eseguite in prefabbricato.

Ma una cosa è ammettere, ai fini della “ultimazione al rustico” del manufatto, la necessità di provare l’avvenuta realizzazione delle tamponature, altra cosa è pretendere – come fa il legislatore regionale della Campania – che tale manufatto, se destinato ad uso abitativo, per poter accedere alla sanatoria debba essere anche concretamente utilizzabile per l’uso cui è destinato, sebbene privo delle necessarie opere di rifinitura atte a renderlo agibile anche sotto il profilo igienico – sanitario.

In sostanza, per effetto di tale disposizione tutti i manufatti al rustico destinati a civile abitazione, se conformi alla normativa urbanistica, non potranno conseguire la sanatoria ove non venga dimostrato (“probatio diabolica”) che gli stessi siano concretamente utilizzabili per l’uso cui sono destinati, il che lascia francamente sconcertati.

L’art. 5 della legge regionale, relativo alla documentazione da allegare alla domanda di sanatoria, non ha formato oggetto di impugnativa.

L’art. 6, che si occupa della misura dell’oblazione e degli oneri concessori, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo, limitatamente ai commi 1 e 2.

Il comma 1 prevedeva che “la misura dell’oblazione, determinata dalla tabella c allegata al decreto – legge n. 269/03, è aumentata del dieci per cento”.

Il comma 2 stabiliva, altresì, che le somme derivanti dall’incremento della misura dell’oblazione di cui al comma 1 sarebbero dovute confluire nel “fondo per la repressione degli abusi edilizi per, poi, essere eventualmente utilizzate dai Comuni“, onde far fronte alle spese occorrenti alla demolizione degli abusi edilizi realizzati nel territorio di rispettiva competenza.

Entrambe le disposizioni sono state dichiarate costituzionalmente illegittime in quanto emanate a tempo scaduto.

La disposizione di cui al comma 3 è, invece, rimasta in vita in quanto non impugnata.

L’Avvocatura aveva, infatti, precisato nel suo ricorso che “il raddoppio degli oneri concessori previsto dal comma 3 trova autonomo fondamento nel secondo periodo del comma 34 (…)”.

La determinazione della misura dell’anticipazione di detti oneri e le relative modalità di versamento è stata invece dalla sentenza n. 196 del 2004 riferita alla legge prevista dal comma 26”.

Per questo motivo è stata impugnata e dichiarata costituzionalmente illegittima la disposizione di cui al successivo comma 5, a mente del quale “la misura dell’anticipazione degli oneri concessori, come aumentata ai sensi del comma 3, è determinata nel cinquanta per cento del relativo ammontare ed è versata all’atto della presentazione della domanda di condono. Le somme residue sono corrisposte in un’unica rata, entro ventiquattro mesi dalla data di presentazione della stessa domanda, previa quantificazione definitiva da parte del Comune, e contestualmente al rilascio della concessione in sanatoria”.

L’art. 7, relativo alla definizione delle domande di condono edilizio – ad opera dei comuni – con provvedimento esplicito da adottarsi entro ventiquattro mesi dalla presentazione delle stesse (prevedendosi, in caso di inerzia, l’esercizio dei poteri sostitutivi), non ha formato oggetto di impugnativa perché “non necessariamente avrebbe dovuto essere veicolato dalla legge prevista dal comma 26”.

L’art. 8, con il quale si stabilisce che “le disposizioni di cui al presente titolo si applicano anche alle domande di sanatoria non ancora definite e presentate tra la data di entrata in vigore del decreto legge n. 269/03 e la data di entrata in vigore della presente legge”, è stato, per contro, impugnato e dichiarato costituzionalmente illegittimo perché emanato oltre il termine consentito.

Gli artt. 9, 10 e 11 non hanno formato oggetto di impugnativa e, pertanto, sono, a tutti gli effetti, vigenti, occupandosi, rispettivamente, della “definizione delle domande di sanatoria presentate ai sensi delle disposizioni di cui alla legge 28 febbraio 1985, n. 47, capo IV, ed alla legge 23 dicembre 1994, n. 724, art. 39”, degli “interventi sostitutivi della regione” in materia di abusivismo edilizio e della “dichiarazione d’urgenza” della legge.

3. Quale sorte per le domande di sanatoria presentate secondo le disposizioni dichiarate incostituzionali?

Le domande presentate ai sensi della normativa regionale caduta sotto la scure della Consulta sono certamente ammissibili, ma le stesse dovranno essere valutate secondo i canoni prefissati dalla normativa nazionale.

Tale conclusione è avallata, peraltro, dalla legge 30 luglio 2004, n. 191, che ha aggiunto, come è noto, un nuovo periodo al citato comma 1 dell’art. 5 del decreto – legge n. 168 del 2004, il quale prevede, appunto, che, una volta scaduto il termine di quattro mesi senza che sia intervenuta la disciplina di dettaglio di competenza regionale, “la normativa applicabile è quella contenuta nel decreto – legge n. 269 del 2003, convertito nella legge n. 326 del 2003”.

Del resto, in precedenza, già la Corte Costituzionale, nella sentenza n. 196 del 2004, aveva ammonito che “ l’adozione della legislazione da parte delle Regioni appare non solo opportuna, ma doverosa e da esercitare entro il termine determinato dal legislatore nazionale; nell’ipotesi limite che una Regione o Provincia autonoma non eserciti il proprio potere legislativo in materia nel termine massimo prescritto, a prescindere dalla considerazione se ciò costituisca, nel caso concreto, un’ipotesi di grave violazione della leale cooperazione che deve caratterizzare i rapporti fra Regioni e Stato, non potrà che trovare applicazione la disciplina dell’art. 32 e dell’Allegato 1 del decreto-legge n. 269 del 2003 “.

Ed è utile ancora evidenziare che la stessa Avvocatura, nella parte conclusiva del ricorso proposto contro la legge regionale della Campania, aveva avuto cura di sottolineare che “la demolizione delle disposizioni considerate non produce lacune, posto che essa consente il riespandersi della normativa statale”. Ciò perché, in materia, l’insegnamento della Corte Costituzionale – ribadito al punto 7 della richiamata sentenza n. 196 del 2004 – è articolabile in tre enunciati:

A ) – Nelle materie di competenza concorrente il legislatore regionale è (non solo facultato ma) costituzionalmente obbligato a cooperare lealmente e sollecitamente con il Parlamento nazionale, mediante la produzione delle norme “di dettaglio” di competenza regionale occorrenti per l’attuazione o, se si preferisce, il recepimento e l’integrazione dei principi da esso (Parlamento) determinati, e, più in generale, mediante “l’adeguamento” della legislazione regionale a detti principi (cfr. art. 2 del D.Lgs 16 marzo 1992, n. 266);

B ) – il legislatore statale può rafforzare l’anzidetto obbligo costituzionale di adeguamento, stabilendone i “tempi” purché “congrui”, mediante la fissazione di termini non meramente ordinatori;

C ) – il legislatore statale può produrre norme anche “di dettaglio” che divengono “cedevoli” solo nel caso in cui la regione ottemperi tempestivamente all’obbligo costituzionale anzidetto, e che rimangono invece cogenti nel caso opposto; sicché l’inadempimento del predetto obbligo costituzionale non rimane privo di conseguenze.

4. Gli effetti della sentenza n. 49 del 2006 sul bilancio regionale. In particolare: l’obbligo di restituzione del 10 per cento dell’oblazione.

Chi ha presentato domanda di sanatoria in Campania ha dovuto versare un’oblazione maggiorata del dieci per cento.

Le somme derivanti dall’incremento della misura dell’oblazione nella percentuale così determinata sarebbero dovute confluire – secondo la norma dichiarata incostituzionale (art. 6, comma 1) – nel fondo per la repressione degli abusi edilizi istituito presso l’area generale di coordinamento del governo del territorio.

La norma (art. 6, comma 2) prevedeva, inoltre, che alle risorse del fondo avrebbero potuto attingere anche i Comuni che ne avessero fatto richiesta per far fronte alle spese occorrenti alla demolizione degli abusi edilizi realizzati nel territorio di rispettiva competenza.

L’art. 6, limitatamente ai commi 1 e 2 sopra citati, (nonché 5), è stato impugnato dal Presidente del Consiglio dei Ministri perché lo stesso avrebbe dovuto essere prodotto entro il (non osservato) termine di quattro mesi.

La Corte, ritenendo fondata la censura, ha dichiarato la norma in esame costituzionalmente illegittima (nella parte che qui interessa).

Non vi è dubbio che, in conseguenza di tale pronuncia che spiega effetti retroattivi rispetto a situazioni o rapporti pendenti, non ostandovi cause di “esaurimento” ex art. 136 e 30 L. 11.3.53, n. 87, Cost., la Regione debba ora restituire le somme indebitamente incamerate, quantomeno a chi ne faccia richiesta.

Trattasi, invero, di indebito oggettivo devoluto alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, già prevista dall’art. 16 legge 28 gennaio 1977, n. 10, in quanto riguarda l’intera area delle concessioni edilizie, nella quale rientrano gli oneri di urbanizzazione posti a carico del destinatario del provvedimento amministrativo ed anche ovviamente l’oblazione di matrice “condonistica”, come precisato dall’art. 35 della legge 28 febbraio 1985, n. 47.

A tal proposito, va rilevato che la giurisdizione del giudice amministrativo attrae le controversie che attengono alla spettanza e liquidazione del contributo per gli oneri di urbanizzazione (o dell’oblazione) – come chiarito da Cass. civ., SS.UU., 14 aprile 2003, n. 5903 – anche quando esse insorgono in via di ripetizione di quanto si assuma indebitamente pagato per tale titolo.

5. Conclusioni: si profila all’orizzonte una riapertura dei termini ?

Da più parti è stata auspicata, per la Regione Campania, una riapertura dei termini di presentazione delle domande di condono.

Illustri studiosi pare abbiano sostenuto addirittura che la riapertura dei termini conseguirebbe automaticamente a far data dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione sul Bollettino regionale, per un tempo non inferiore a 22 giorni: quanti sono effettivamente i giorni che intercorrono tra la data di pubblicazione della legge n. 10 sul Bollettino regionale, avvenuta il 18 novembre 2004, e quella di scadenza del termine ultimo per la presentazione delle domande fissato al 10 dicembre 2004, per effetto delle modifiche apportate, all’art. 32 del decreto – legge n. 269 del 2003, dall’art. 5 della legge n. 191 del 2004 (al primo periodo, le parole: “entro il 31 luglio 2004” sono sostituite dalle seguenti: “tra l’11 novembre 2004 e il 10 dicembre 2004”).

In sostanza, si ritiene che chi non abbia, all’epoca, presentato domanda in quanto non possedeva i requisiti previsti dalla legge regionale, debba, comunque, poter beneficiare di una restituzione in termini a seguito dell’accertamento dell’illegittimità costituzionale della legge che ha ormai perduto efficacia.

L’identico principio dovrebbe valere per chi non ha presentato domanda avendo subdorato l’incostituzionalità di una legge come quella in discorso, intervenuta oltre il termine di quattro mesi previsto dalla legge n. 191 del 2004 in esecuzione della sentenza della Corte Costituzionale n. 196 del 2004.

Personalmente, sono dell’avviso che non vi possa essere, a queste condizioni, riapertura dei termini, anche perché la questione involge paradossalmente il delicato problema dell’efficacia della legge (ritenuta dal singolo) incostituzionale prima della dichiarazione di incostituzionalità che ovviamente non è il caso di affrontare nella presente sede.

Qui ci si può limitare ad osservare che un conto è auspicare un intervento del legislatore che, sul piano della opportunità politica, ritenga doveroso garantire parità di trattamento a quei cittadini che, dovendo sottostare ai dettami della normativa regionale, più restrittiva di quella nazionale, hanno consapevolmente rinunciato ad avvalersi del beneficio “condonistico”, un altro conto è dare per scontata la restituzione in termini, per le ragioni anzidette, sol perché la normativa censurata è stata dichiarata costituzionalmente illegittima.

Tale conclusione è estranea al campo della giustizia costituzionale e collide con lo stesso art. 137 Cost. che disciplina gli effetti della decisione di incostituzionalità contenente l’accertamento ufficiale ed “erga omnes” del vizio della legge.

Non può negarsi, invero, efficacia obbligatoria alla legge anche se ritenuta incostituzionale prima della pronuncia della Corte, data la normale irrilevanza dell’errore di diritto anche se generato da incertezza in ordine alla conformità della legge stessa alla Costituzione.

I singoli sono posti in grado di scegliere responsabilmente fra l’ottemperanza alla legge incostituzionale e la disobbedienza ad essa (così Zagrebelsky in “La giustizia costituzionale”, Il Mulino, 1996).

Quest’ultima scelta espone al rischio, più o meno remoto, a seconda dei casi, che la legge non sia più riconosciuta incostituzionale e che, quindi, si vada incontro alle conseguenze sanzionatorie da essa previste. Per questa ragione, si potrebbe dire, l’ordinamento non se la sente di imporre la disobbedienza.

La consente, tuttavia, in base ad una scelta rimessa all’autonomia decisionale dei singoli, in tal modo posti di fronte ad un problema non più giuridico, ma di interesse.

E’ sulla base di tale ragionamento, suggerito dagli addetti ai lavori, che molti in Campania hanno puntualmente presentato, entro la data ultima del 10 dicembre 2004, la domanda di condono, ma ai sensi della normativa nazionale, ignorando del tutto quella regionale perché intervenuta fuori termine e perché ritenuta (a ragione, come accertato ex post) incostituzionale.

Chi, invece, non ha presentato la domanda, né ai sensi della normativa regionale, né di quella nazionale, non ha diritto ad essere restituito in termini, essendo ormai decaduto dal beneficio.

D’altronde, questo è anche un bene, giacché un’eventuale riapertura dei termini finirebbe sicuramente per provocare l’ennesimo sacco del territorio in una regione già (fin troppo) provata da anni di abusivismo edilizio rimasto sostanzialmente impunito a causa delle omissioni, non sempre giustificate, dei Comuni e degli organi istituzionali preposti per legge all’esercizio dei poteri sostitutivi.